Torna a casa, giornalista!

È un mestiere maledetto, quello del giornalista. Perché chi informa è calamitato in ogni momento dalla realtà esterna. E rischia di perdere di vista il proprio paesaggio interiore.
Di recente ho partecipato, come relatrice, all’incontro formativo Visioni: etica, giornalismo e spiritualità a confronto, organizzato dall’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna. Tra gli interventi, mi ha molto colpito quello di Padre Guidalberto Bormolini. Sacerdote e monaco, è noto ai media perché è stato l’amico e il consigliere spirituale di Franco Battiato, ma è molto di più (vi invito a scoprirlo attraverso l’associazione TuttoèVita e il progetto Il Borgo Tuttoèvita).
Ecco, come Padre Bormolini ha messo il dito nella piaga:
È la dimensione interiore del comunicatore che manca. E potrebbe fare la differenza. Se è San Francesco a dire o scrivere la parola “pace”, si genera pace.
Tòc tòc: c’è qualcuno dentro di noi?
Se è vero che ciò che siamo interiormente genera parole che costruiscono la realtà, si comprende bene la crisi nera che il giornalismo sta attraversando. In termini di credibilità e, dunque, di fiducia. Vi risulta, infatti, che fuori e dentro le redazioni ci sia un instancabile viavai di esseri divini capaci di partorire angeli?
Eppure, non credo che il problema stia nei giornalisti. Non sono incarnazioni dell’Uomo Nero che si descrive ai bambini perché mangino finalmente la pappa. La questione sta nel fatto che si è persa la buona abitudine di indagare e conoscere chi siamo.
«Noli foras ire – dice Sant’Agostino –, in te redi, in interiore homine habitat veritas». Proprio così: non uscire da te stesso, rientra in te, la verità risiede nell’interiorità dell’uomo. Vale anche per noi che, per curriculum e per chiamata, non facciamo i santi, ma i professionisti dell’informazione.
Incontrare la nostra interiorità, l’essenza del nostro essere e divenire, ci permette di sconfiggere quelli che Plutarco, giusto per citare un altro che la sapeva abbastanza lunga, riteneva fossero i tre mali morali dell’uomo: curiosità, collera e chiacchiera.
Noi giornalisti dobbiamo proprio rimboccarci le maniche per abbatterli, eh? La curiosità è benefica, ma è sempre un’attitudine borderline: spesso si trasforma in un danno, se è pelosa, invadente o distruttiva. La collera è un carburante dell’impegno sociale e civile, ma di certo non aiuta la concentrazione e il racconto equo delle cose e va saggiamente governata. La chiacchiera, infine, non ha niente di buono, almeno a mio modesto parere: porta a quel lunapark di gossip che è un vero e proprio peccato mortale del giornalismo.
Conosci te stesso
Prima di narrare i fatti o i fenomeni del mondo che ci circonda, dunque, faremmo bene a prendere coscienza di chi siamo. Dei valori in cui crediamo, delle relazioni che ci fanno battere il cuore. Dei desideri che coltiviamo en plein air o in gran segreto, delle passioni che ci muovono verso le stelle e ben oltre, delle preoccupazioni e delle paure che non ci fanno dormire la notte.
L’esortazione «Conosci te stesso» è vecchia come il cucco. Risale alla massima greca γνῶϑι σεαυτόν, che era uno degli apoftegmi attribuiti ai Sette Sapienti e stava incisa sul frontone del tempio di Apollo a Delfi. Come tutte le verità antiche, è estremamente semplice, giusto? Ha quasi l’aspetto di una banalità.
Però, per comprenderne pienamente il senso, occorre farne davvero esperienza. Bisogna mettersi lì e iniziare a leggere e interpretare sé stessi. Non fermarsi all’impostazione della copertina, alla forza del titolo, alla scelta dei caratteri tipografici o all’organizzazione del testo, ma scendere in profondità.
Come quando si avvicinano le Sacre Scritture di qualsiasi tradizione spirituale. A tutta prima, non sono difficili da capire, ma quale stratificazione di significati nascondono tra le righe! Occorre selezionare una parte per volta e, poi, ruminarla per un tempo adeguato, lasciando che ci parli, sino a farne un’attenta esegesi.
La pratica del silenzio
La vita del giornalista è piuttosto frenetica, per non dire indiavolata, come ho scritto in un mio recente articolo. Ma possiamo trovare delle strade per rientrare in noi stessi. Così da fronteggiare la continua estroflessione cui ci condanna la professione. E puntare finalmente le nostre antenne verso l’interno.
Una pratica molto interessante, soprattutto per noi comunicatori, è quella del silenzio. Perché, prima di informare, non dedichiamo un piccolo spazio al silenzio, anche solo di dieci-quindici minuti, per nutrire le parole che utilizzeremo più tardi? Un esercizio di raccoglimento, da eseguire a occhi chiusi. Senza alcun obiettivo, se non quello di stare nell’assenza di qualsiasi movimento verso l’esterno.
Il silenzio è un’esperienza di pienezza e risonanza, non di vuoto, ed è altamente generativo, come tutte le pratiche meditative (1). Nel silenzio, infatti, un mistero ci viene sempre incontro. Accade, non lo facciamo accadere noi. Ci sceglie, e noi possiamo solo accoglierlo e aprirci a quanto ci porta in dono.
Torniamo a casa, vi va?
Abbiamo visto come praticare il silenzio, prima di tuffarci a capofitto in un articolo o servizio giornalistico. Ma possiamo cercarlo, il silenzio, anche in altri momenti di ascolto interiore. Come chiave d’accesso a noi e come grammatica della comunicazione.
Per esempio: perché non ci alziamo presto al mattino o andiamo a letto per ultimi la sera? Potremmo godere anche solo di una mezz’ora di silenzio, senza tv, radio, pc, ipad o smartphone accesi. Oppure: perché non svolgiamo un’attività quotidiana senza parole e senza musica nelle orecchie, tipo fare sport all’aria aperta, cucinare o riparare qualcosa?
Personalmente, amo molto contemplare la natura, in solitudine, lontano dalla città, per assaporare la felicità avvolgente del silenzio. Così come mi piace frequentare ambienti urbani silenziosi, tipo biblioteche, musei o gallerie d’arte, negli orari in cui sono meno gettonati. E visitare luoghi sacri, per approfittare della pace e della quiete che vi si respira a pieno cuore.
Consiglio queste pratiche, per spegnere il rumore e bussare alla porta di sé stessi, anche ai miei studenti. Perché siamo tutti come la mitica cagnolona Lassie. Ricordate? Il mondo ci allontana dalle nostre case interiori, soprattutto se abbiamo giornate sbilanciate verso l’esterno. Ma, volendo, sappiamo come tornare indietro. Anche con fatica, superando mille difficoltà, leccandoci le ferite.
Solo allora le parole che useremo usciranno veramente da noi, dal nostro sguardo interiore. Da quella dimensione profonda e invisibile da cui trarranno l’energia per costruire ciò che diciamo e scriviamo. Ne vale la pena, che dite?
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
- Francesco Bellino, Per un’etica della comunicazione, Bruno Mondadori, Milano, 2010
Crediti fotografici
Foto di StockSnap by Pixabay.com