Osservare, non giudicare: un esercizio di accoglienza

Rumi, il poeta mistico persiano vissuto nel tredicesimo secolo, scrisse: “Al di là delle idee di giusto e di sbagliato, c’è un campo. Vi aspetterò laggiù”. Siete mai andati in questo campo?
Perdiamo un sacco di tempo e consumiamo un sacco di energia, a giudicare gli altri e le loro azioni. A esprimere critiche distruttive nei loro confronti, a sputare sentenze moralistiche, a etichettare in senso negativo ciò che non ci piace. Pensate davvero che una comunicazione basata su valutazioni ci aiuti a vivere meglio e, soprattutto, a coltivare relazioni migliori con gli altri?
L’ego prende le misure, l’anima osserva
Qualche anno fa, ho avuto il piacere e il privilegio di conversare sulla differenza tra ego e anima con un monaco della Self Realization Fellowship, l’organizzazione spirituale fondata da Paramahansa Yogananda, il maestro indiano che portò la meditazione yoga in Occidente negli anni Venti del secolo scorso. Così, ho scoperto che il termine ego, in sanscrito, viene definito come ahamkara, ciò che produce il senso dell’io e fa sentire ciascuno di noi distinto dal resto.
Va tutto bene, naturalmente, se ciò che ci identifica è in equilibrio e in salute; ma se è instabile e debole, cosa succede? Ci valuta. E lo fa in funzione di qualità ed eventi esterni che non sono il nostro vero io. Ci mette in competizione con gli altri. Ci procura stress e infelicità. Di conseguenza, l’ego malato e privo di equilibrio ci spinge a giudicare persone, cose ed eventi. Se il saggio Patanjali, nei suoi Yoga Sutra, aveva inserito l’ego tra le afflizioni dell’animo umano, delle buone ragioni le avrà pur avute, no?
Mi disse il monaco: «L’ego ostacola il nostro cammino interiore e i nostri rapporti con gli altri perché prende costantemente le misure, stima incessantemente il valore di cose e persone, passa tutto al vaglio per esprimere un giudizio. L’anima, invece, osserva ciò che accade». Non è magnifico che la parte più spirituale di noi non regga una calcolatrice o una bilancia? Che non sia ossessionata dalle quantità ma, piuttosto, punti dritto alle qualità? Che, anziché esaminare con occhio critico, osservi con il genuino interesse di un esploratore?
Iniziamo anche noi a osservare
Veniamo, ora, al nostro tredicesimo esercizio di etica della comunicazione (qui trovate il dodicesimo, se ve lo siete perso), con l’obiettivo di imparare a osservare il comportamento tenuto dagli altri, senza formulare alcuna valutazione o attribuire alcuna colpa.
L’idea di proporvi questo esercizio mi è venuta, pensando al processo della non violent communication (in italiano è stata tradotta con “comunicazione nonviolenta” o “comunicazione empatica”), messo a punto dallo psicologo clinico Marshall B. Rosenberg, già a partire dagli anni Sessanta del Novecento, per favorire forme comunicative pacifiche, in grado di generare uno scambio soddisfacente per tutte le parti coinvolte nell’interazione (1).
Che cosa serve?
È un esercizio semplice ma molto potente perché potrebbe, se ripetuto nel tempo, arrivare a scalfire la nostra perniciosa e alquanto rodata tendenza a giudicare. Ecco quanto occorre:
- Chi: voi e la vostra capacità di osservazione.
- Cosa: favorire una riflessione sul vostro agire comunicativo, per intercettare le volte in cui preferite emettere diagnosi, sparare giudizi, esprimere critiche o incolpare qualcuno, anziché limitarvi a guardare le azioni che compie.
- Quando: ogni volta in cui qualcuno fa qualcosa che non vi piace.
- Dove: nel luogo in cui siete più comodi per scrivere.
- Quanto: il tempo che vi occorre per descrivere nel dettaglio cosa avete osservato.
- Come: con una biro e un taccuino da portare sempre con voi, appositamente dedicato all’osservazione delle situazioni che non apprezzate.
- Perché: per abituarvi a osservare senza valutare, attività che, pensate un po’, per il filosofo Jiddu Krishnamurti era la forma più elevata di intelligenza umana.
L’effetto di questo esercizio è molto appagante perché resistere alla tentazione di conteggiare, quantificare e soppesare le persone, ci dà la piacevole sensazione di iniziare a vedere gli altri, non più come nemici, ma come esseri umani che cercano di fare del loro meglio per soddisfare i propri bisogni. Cominciamo, in altri termini, a sviluppare empatia verso di loro.
In che modo praticare l’esercizio?
Anzitutto, dovete eseguirlo ogni volta in cui una persona si comporta in un modo che voi non approvate o che vi fa soffrire. Poi, quando accade, anziché attaccare l’altro con il pensiero o con le parole, tirate fuori quello che io chiamo Taccuino dell’osservazione (e non Tacchino, come aveva capito una mia studentessa straniera!). L’ideale sarebbe averlo sempre a portata di mano; se non ce l’avete, ricordate di fare l’esercizio non appena ne avrete la possibilità, d’accordo?
Aprite il taccuino (ancora una volta, non il tacchino!) e, su una pagina bianca, scrivete il nome della persona, poi descrivete come essa si è comportata. All’inizio, la descrizione si risolverà in un paio di frasette, tipo pensierino di terza elementare, ma, con l’allenamento, sarete in grado di analizzare il comportamento dell’altro con la precisione di un anatomopatologo: guarderete con concentrazione sia le azioni macro sia quelle micro.
In questo sforzo di osservazione, imponetevi di essere degli osservatori puliti, ossia di non farvi fuorviare dalle vostre emozioni, dai vostri sentimenti o dalle vostre opinioni. State attenti, dunque, a non inserire avverbi, aggettivi o verbi che implicano una valutazione. Per esempio, se scrivete “Mia figlia rimanda sempre il momento di fare i compiti”, c’è già un giudizio in quel “sempre”; sarebbe più opportuno esprimersi in modo maggiormente circostanziato nel tempo e nello spazio: “Oggi mia figlia ha fatto i compiti di matematica dopo cena”.
Inoltre, non mescolate la vostra osservazione con diagnosi sul comportamento altrui. Se scrivete: “Stasera Marco alza la voce perché ha avuto una giornata faticosa sul lavoro”, non state semplicemente descrivendo cosa osservate, ci state aggiungendo una vostra ipotesi, per giunta rendendola una certezza laddove non sapete se sia andata realmente così. Magari Marco sta regolando al massimo il volume della voce perché il suo partner in crime a padel gli ha appena risposto picche, perché sta avendo un attacco di gastrite o perché voi lo volete far calmare a tutti i costi.
C’è qualcosa da imparare?
C’è parecchio da apprendere! L’osservazione scevra da giudizi disinnesca la miccia dell’ego ed è la prima tappa di un percorso che ci porta a comunicare in modo etico con gli altri. La tappa successiva è interagire con la persona per comprendere quali sono i suoi sentimenti, da quali bisogni essi scaturiscano e cosa chiede per stare meglio.
Torno all’esempio di prima. Se notate che Marco alza la voce, potete chiedere: «Ti senti affaticato perché avresti bisogno di lavorare in un ambiente o con colleghi meno stancanti?». Se la risposta è “sì”, allora potete continuare: «Cosa vorresti che facessi in questo momento per alleviare la tua fatica?». Se la risposta alla vostra prima domanda è “no”, allora potete provare a intuire quali sono i sentimenti che affiorano dal suo comportamento: «Stai alzando la voce perché sei arrabbiato?… Perché sei preoccupato?… Perché sei spaventato?…». Quando avrete capito il sentimento che prevale in lui, cercherete empaticamente di mettere a fuoco i bisogni insoddisfatti che lo fanno sentire così e di accogliere le sue eventuali richieste.
Il risultato di un’interazione condotta in questo modo è far sentire l’altro visto, ascoltato e supportato. Molto diverso dall’effetto che avremmo, se dicessimo al caro Marco: «Perché diavolo alzi la voce? Sei cretino?!»; «Se continui così, sveglierai tutto il vicinato!»; «Smettila di urlare come un pazzo, altrimenti mi metto a urlare anch’io…»; «Abbassa la voce, idiota, e falla finita!»; «Non cambierai mai, eh? Sei il solito melodrammatico!!». Se l’atto di osservare senza compiere valutazioni o inanellare accuse diventa un’abitudine quotidiana, vi trasformerà e trasformerà le vostre relazioni.
L’etica della comunicazione abita proprio nel campo in cui ci aspetta Rumi. Perché non valuta. Osserva con attenzione e con amore. Permette un incontro da cuore a cuore, basato sulla nostra comune umanità e fragilità. E arricchisce la nostra vita e quella di coloro con cui comunichiamo.
Se volete conoscere meglio la comunicazione nonviolenta e frequentare dei corsi con insegnanti certificati, in Italia potete rivolgervi al Centro Esserci di Reggio Emilia.
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
- Marshall B. Rosenberg, Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla comunicazione nonviolenta, tr. it. di F. Rossi, Reggio Emilia, Edizioni Esserci, 2003 (la prima pubblicazione, in lingua inglese, è uscita nel 1998).
Crediti fotografici
Foto di Gianni Crestani da Pixabay.