Fare l’extraterrestre: un esercizio di avvicinamento

Quante volte pensiamo di essere dei fottuti geni di perspicacia? E crediamo di comprendere subito e alla perfezione quanto gli altri ci stanno comunicando? Troppe, ahinoi.
Il linguaggio, come qualsiasi altro strumento comunicativo, è ambiguo. È tanto un ausilio alla comprensione dell’altro quanto un ostacolo (e di quelli tosti) all’intesa (1). Può innescare, infatti, dei fraintendimenti più o meno gravi, fino a generare dei veri e propri conflitti. Il motivo? Quando comunichiamo con gli altri, ciò di cui ci serviamo (parole, testi, immagini) crea sempre una distanza.
La distanza da coprire
Anzitutto, esiste una distanza tra noi e ciò che vorremmo comunicare, perché occorre “piegare” lo strumento che usiamo ai nostri obiettivi comunicativi e non ci riusciamo mai pienamente. Avete provato, almeno una volta nella vita, a scrivere una lettera d’amore? Se non siete dei cuori di pietra, ci avete provato. Bene, allora vi sarete resi conto, a patto che non vi chiamiate Nazim Hikmet o Jacques Prévert, di come non sia affatto semplice trovare le parole che corrispondano al nostro sentimento.
Poi, nel comunicare si scava sempre una distanza tra noi e gli interlocutori. Il motivo è presto detto: siamo due mondi diversi che entrano in contatto e il ponte che gettiamo può arrivare, sì, vicino al mistero dell’altro, ma mai toccarlo.
Infine, c’è una costituzionale distanza tra noi e il mondo, perché riuscire a comunicarlo in modo da rispecchiarlo totalmente è, di fatto, impossibile. Anche con tutta la più buona volontà, dire «mela» non restituirà mai l’intero universo delle mele o quella mela specifica cui intendiamo riferirci.
Eccoci, allora, al nostro settimo esercizio di etica della comunicazione (qui trovate il sesto). Obiettivo: imparare ad accorciare, delle tre distanze comunicative, quella con il nostro interlocutore.
Se veniste da un altro pianeta?
L’idea di questo esercizio mi è venuta pensando a come, nei racconti di fantascienza, gli extraterrestri che non hanno intenzioni bellicose siano sempre curiosi dei nostri usi e costumi. Quando sbarcano sulla Terra con le loro tutine fosforescenti in lattex, cercano di capire come viviamo noi umani. In che modo? Facendo domande!!
Ecco, punto per punto, cosa vi serve per questo esercizio.
- Chi: voi e un interlocutore che vi sta raccontando qualcosa; meglio, se è un vostro amico, ma può anche essere la signora sconosciuta alla fermata della metro.
- Cosa: favorire in voi, attraverso una serie di domande ben poste, una maggiore comprensione di quanto l’altro vi sta comunicando.
- Quando: ogni volta in cui desiderate afferrare bene la comunicazione proposta dall’interlocutore, accorciando la distanza che vi separa.
- Dove: ovunque, nel mondo offline come online.
- Quanto: il tempo che serve per far sì che capiate il più possibile l’altro, e lo capite quando siete arrivati al cuore del suo messaggio.
- Come: sforzandosi di non dare nulla per scontato e chiedendo a manetta, come se non ci fossero più punti interrogativi dopo di voi.
- Perché: per non immaginare di avere capito ciò che vi è stato detto e agire di conseguenza, quando in realtà avete appreso poco o nulla.
L’effetto è divertente, perché giocate a fare l’extraterrestre impiccione, una sorta di Tenente Colombo appena catapultato da Marte. E per l’interlocutore? Essere l’oggetto di un fuoco di fila di domande può apparire all’inizio un po’ strano o addirittura imbarazzante. Ma, se voi ponete i giusti interrogativi, alla fine questa sensazione si trasformerà nella piacevole gratificazione di essere presi (finalmente) sul serio.
In che modo praticare l’esercizio?
Di fronte al discorso dell’altro, dovete indagarne il senso, facendogli delle domande. Dovete porre domande “a cipolla”, come le chiamo io: strato dopo strato, dovete andare sempre più dentro la questione.
Come sono queste domande? Sono aperte, per lasciare l’altro libero di fornire risposte ricche e articolate e non un lapidario «sì» o «no». E assomigliano a un bisturi, che seziona con cura le affermazioni e cerca di eliminare ciò che non aiuta a mettere a fuoco il loro significato reale.
Facciamo un esempio. L’amico con cui state conversando vi dice: «Sai che penso di essermi innamorato di Amelia?». Ecco, è la vostra buona occasione per non urlare: «Complimenti, Amelia è proprio una gran gnocca!!». Temperate l’entusiasmo e date modo, al vostro interlocutore, di spiegarsi meglio e, a voi, di capire meglio. Chiedete: «Perché hai detto “penso”?», «Da cosa, per quello che è il tuo sentire, capisci che sei innamorato di qualcuna?», «Cosa ti ha colpito in Amelia?» e così via.
A seconda delle risposte, approfondite. Se all’ultima domanda la risposta è stata: «Perché è una ragazza molto fine», chiedete che cosa intenda il vostro amico con l’aggettivo “fine”, a parte il non mettersi le dita nel naso e il non ruttare in pubblico.
C’è qualcosa da imparare?
Le domande sono molto potenti nel creare una buona comunicazione. E il principale insegnamento di questo esercizio sta proprio nelle positive ricadute umane del diventare “domandologi”. Come scrive Warren Berger, ex giornalista e ora studioso di come i più importanti innovatori del mondo abbiano avuto idee creative e risolto problemi particolarmente difficili:
Le domande mostrano interesse verso l’altro, favoriscono la comprensione e stabiliscono un legame. Queste sono le gambe su cui una relazione può essere costruita e sostenuta. Non è un caso che le persone che svolgono lavori in cui bisogna creare velocemente delle relazioni di fiducia – terapeuti, coach, negoziatori di ostaggi – facciano affidamento sulle domande, come loro principale strumento di comunicazione (2).
Concludo, chiedendovi: «Siete genuinamente interessati ai vostri interlocutori? Siete capaci di mettere il vostro ego da parte e di lasciar spazio alla curiosità e non al giudizio? Siete preparati ad ascoltare in modo profondo?». Allora, forza: fate gli extraterrestri!
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
- Jurgen Habermas, Etica del discorso, tr. it. di E. Agazzi, Editori Laterza, Roma-Bari, 1989 (la prima edizione, in tedesco, è stata pubblicata nel 1983).
- Warren Berger, The Book of Beautiful Questions, Bloomsbury Publishing, London, 2019, p. 105. Traduzione personale.
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