E se l’attivismo non fosse etico?

Non so voi, ma io non ne posso più di persone schierate. Di chi ritiene che il mondo sia sempre il derby Milan-Inter. Di chi milita, senza sentir ragioni. Di chi si arma fino ai denti contro gli altri.
Ma l’attivismo è etico? Scendere in campo e assumere una posizione netta a favore (o a sfavore) di un’idea, una situazione, un individuo o gruppi di individui è moralmente appropriato? Collocarsi al proprio posto di combattimento per demolire la parte avversa è cosa buona e giusta?
Lo schierarsi dei brand
Prendiamo le aziende, per esempio. In questi ultimi anni, anche sull’onda della sempre maggiore importanza attribuita alla responsabilità sociale d’impresa, hanno iniziato a comunicare da che parte stanno in merito al bene comune. E ad agire di conseguenza. È quello che Philip Kotler e Christian Sarkar hanno definito brand activism (1).
Cos’è l’attivismo di marca? È l’attività attraverso cui un’azienda diventa un effettivo agente di cambiamento, dando il proprio contributo al miglioramento della società. Secondo molte ricerche, il 90% dei Millennials e la Generazione Z al gran completo optano per brand che sostengono nobili cause sociali, culturali, ambientali, economiche e politiche (2). Fino qui, possiamo solo esserne contenti. Soprattutto perché la merce finalmente si spiritualizza, come aveva preconizzato Marx.
La faccenda si complica, però, e assume sfumature poco etiche, in due casi. Anzitutto, quando l’azienda vanta schieramenti ideologici non confermati dalle proprie scelte, dalle caratteristiche dei prodotti al trattamento dei lavoratori. Poi, quando il suo farsi carico dei problemi e delle preoccupazioni della comunità acquisisce le fattezze di una lotta. Quando il lodevole impegno valoriale è l’occasione per indossare un’armatura. Siamo sicuri che sguainare la spada o fare la morale aiuti a dialogare insieme, alla ricerca di una soluzione condivisa?
La propaganda dei media
E i media? Siamo sommersi da una comunicazione polarizzata che spesso sconfina nella propaganda. E, sempre più spesso, i giornalisti si trasformano in attivisti. Alla faccia del motto “credibilità e imparzialità” che contraddistingueva il primo quotidiano moderno, «The Daily Courant», nato a Londra nel 1702.
L’informazione giornalistica è ogni giorno più parziale e inaffidabile: o tifa di qua o tifa di là. Così facendo, purtroppo, non consente ai cittadini di comprendere e penetrare la complessità del reale e non favorisce un dibattito sulle questioni chiave dell’attualità. Anzi: amplia le echo chambers favorite dai social networks. Dove i lettori se la cantano e se la suonano, con altri che hanno le loro stesse convinzioni, e si sentono liberi di attaccare i dissidenti in modo intransigente e intollerante, anche con discorsi d’odio.
Per fortuna, esistono testate come il neonato News48, l’unico magazine di giornalismo costruttivo in Italia, che fa dell’approccio equo alle notizie il suo principale intento. L’obiettivo della redazione, infatti, è di raccontare le storie per intero, mettendone in luce sia gli aspetti critici che le risorse. Senza prendere posizione, ma delineando le varie posizioni in gioco.
Avere un’opinione, non brandirla
Formarsi un proprio pensiero su sé stessi, gli altri e la realtà è inevitabile, oltre che doveroso. Ma renderlo una fortezza inespugnabile o, peggio ancora, una prodezza di artiglieria rotante con sedici bocche di fuoco, tipo macchina da guerra di Leonardo, non mi pare. Nemmeno se si parteggia per diritti legittimi, che si reputano violati o scarsamente riconosciuti.
La questione è che, tutte le volte in cui si traccia una riga tra noi e chi non la pensa come noi, si compie un atto che non onora il nostro comune destino. È un atto di forza, non di umanità.
È perdere di vista la norma della giustizia di cui ha parlato Karl-Otto Apel (3). In una comunità ideale della comunicazione costituita da soggetti razionali, tutti gli interlocutori dovrebbero sentirla come obbligo morale. sapete cosa afferma? Che ciascuno – la portinaia come il notaio dell’attico, l’esponente di destra come quello di sinistra, il vecchio come il giovane – ha diritto a esprimere le proprie opinioni e ad avanzare pretese di validità in grado di fargli ottenere un possibile consenso.
In sostanza: interpretare e giudicare il mondo secondo un criterio soggettivo e personale, ci sta. Battersi per ciò in cui si crede, idem. Ma brandire la propria opinione, come fosse una clava, no.
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
(1) Philip Kotler e Christian Sarkar, Brand Activism dal purpose all’azione, tr. it. di S. Addamiano, Hoepli, Milano, 2020 (il saggio è stato pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 2018).
(2) Maria Pia Favaretto, La strategia di comunicazione dell’era postdigitale, libreriauniversitaria.it, Padova, 2020.
(3) Karl-Otto Apel, Etica della comunicazione, Jaka Book, Milano 1992.
Crediti fotografici
Foto di Robert Jones da Pixabay.