Se tutto importa: grammatica italiana e femminili professionali

Puntualmente, ogni 8 marzo, Giornata internazionale dei diritti della donna (è così che si chiama, eh, anche se noi l’abbiamo bignamizzata in Festa della donna), si torna a ribadire che l’identità di genere non è una questione di linguaggio. Ne siamo sicuri?
Il nonno della lingua italiana, il latino, prevedeva già, nei nomi di persona, delle norme precise per regolare il passaggio dal maschile al femminile. Addirittura, era così lungimirante da contemplare il genere neutro (che la tradizione grammaticale italiana ha poi gettato alle ortiche) per indicare ciò che non era né l’uno né l’altro. Né maschile né femminile. Insomma, ciò che noi oggi potremmo definire “identità non binaria”, dal gender fluid al no gender.
La lingua italiana, questa imperfetta conosciuta
La formazione del femminile è già nel kit di attivazione della lingua italiana ed è un gioco da ragazzi. Basta volerlo. E, in caso di dubbio, ci sono sempre i dizionari. Che, notoriamente, non mordono (1).
I nomi che, al maschile, terminano in -o formano il femminile, aggiungendo al tema la desinenza -a. Per cui vogliamo bene al maestro, ma anche alla maestra, e, talvolta, andiamo dalla psicologa, sicuri che possa ascoltarci meglio di uno psicologo. Perché, allora, non consultiamo l’avvocata e non chiediamo all’architetta di ristrutturarci casa? Perché crediamo che la giardiniera sia solo una conserva di ortaggi e non la fanciulla che ci viene a potare la siepe?
E per i nomi maschili che terminano in -a come vanno le cose? Formano generalmente il femminile, aggiungendo al tema il suffisso -essa. Lodiamo la poetessa, infatti. Ma, per il resto, preferiamo considerarli nomi ambigenere in cui, a rivelare il maschile o il femminile, sono gli articoli. Tant’è che la pianista non è il pianista, una cronista non è un cronista. Entrambi possono essere di una noia mortale, ma qui non ci interessa.
I nomi maschili che terminano in -e, invece, diventano femminili con la desinenza in -a o il suffisso in -essa. Diciamo: «sapesse, signora mia!». Ma ci fa strano dire: «sapesse, assessora mia!». La studentessa ci piace, la presidentessa un po’ meno. Pare sempre la pallosa moglie del presidente.
E i nomi maschili in -tore? Formano di solito il femminile con -trice. Acquistiamo il quadro di una brava pittrice o il libro di una formidabile scrittrice, ma la direttrice ci sembra sempre meno capace del direttore. Il femminile può anche essere in -tora, ma la pastora ci pare ben bizzarra rispetto al pastore. Oppure in -tessa. Tutti qui ci fidiamo della dottoressa, nettamente meno della fattoressa.
Come risolvere i femminili professionali?
La lingua italiana non ha ancora sciolto il nodo dei nomi femminili che indicano professioni e cariche istituzionali. In parte, perché in passato questi ruoli sono stati svolti quasi esclusivamente da uomini; in parte, perché i corrispondenti femminili, non essendo ancora entrati nell’uso quotidiano, suonano irrimediabilmente cacofonici (2).
Per molti, purtroppo, questa sembra una preoccupazione inutile. Come si dice in questi casi? Sono ben altri, i problemi. È vero, ma la parità tra uomo e donna passa anche attraverso le parole e, dunque, la grammatica (cfr. Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini del 1987).
Il linguaggio è una questione di sostanza. Come ci esprimiamo va a definire come pensiamo e come costruiamo la nostra realtà e quella degli altri.
Naturalmente, una donna è libera di scegliere come vuole essere vista e definita, ma credo che, in termini etici, il rispetto dell’identità di genere nella comunicazione sia auspicabile. Non è una paturnia del femminismo o dell’attivismo LGBTQ+. È la volontà di superare il sessismo linguistico ancora incistato nei nostri discorsi.
Pertanto, quando qualcuno, com’è capitato, mi manderà una mail, esordendo con un incauto: «Gentilissimo Professor Mariagrazia Villa…», io risponderò: «Carissima Paolo Bianchi…». E, se mi gira, chiamerò ostetrica il mio vicino di casa che fa l’ostetrico.
Come fare, allora? Anzitutto, evitiamo l’uso della parola donna in aggiunta al nome maschile indicante la professione. Non donna magistrato, per favore, ma magistrata. Poi, aboliamo l’uso del maschile. Non il magistrato Maria Rossi, ma la magistrata Maria Rossi.
Ci sembra contro natura magistrata? Eppure, è come segretaria, scienziata o infermiera. È una forma corretta in italiano, sia dal punto di vista grammaticale che socio-culturale e morale.
Insomma, meno mimose e più cura per la lingua che utilizziamo. Perché tutto importa.
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
(1) Mario Cannella, Beata Lazzarini e Andrea Zaninello (a cura di), LoZingarelli 2021. Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli, Bologna, 2020
(2) Elisabetta Perini, Grammatica italiana per tutti. Regole, spiegazioni, eccezioni, esempi, test, Giunti Editore, Firenze, 2016.
Crediti fotografici
Foto di S. Herman & F. Richter da Pixabay