Comunicazione, tempo e supercazzole
La comunicazione contemporanea sembra avere del tempo da perdere. Ci avete fatto caso? Eppure, non siamo sulla transiberiana con tante ore davanti per poter conversare amabilmente. Siamo su un treno che fila via veloce, e dobbiamo dare un senso a quanto comunichiamo.
Con buona pace di sant’Agostino, il tempo non è solo il distendersi dell’anima (1), ma anche la corporeità che l’anima osserva. Non è solo ciò che le cose del mondo ci lasciano in eredità o in visione, ma anche il trascorrere di queste stesse cose. Non è solo il fluire nella coscienza, insomma, ma anche il movimento delle lancette degli orologi. Anzi: degli smartwatch. Oggi utilizziamo dei dispositivi super rapidi, come telefonini e tablet, e conduciamo la frenetica vita dei social network.
Di tempo, inteso come l’agio di esistere, non ne abbiamo mai avuto così poco. Perché, allora, ci dilettiamo con le supercazzole? Con le chiacchiere oziose, con gli inutili pettegolezzi, con le emorragie di significato?
Ciò che è e ciò che sappiamo
Credo che l’allegro e insulso conversare, in cui si battono infiniti sentieri senza giungere da nessuna parte, si debba al vizio postmoderno che Maurizio Ferraris chiama fallacia trascendentale (2). Che cos’è? È la propensione a confondere l’ontologia (ciò che è) con l’epistemologia (ciò che sappiamo o, peggio, crediamo di sapere).
Ipotizziamo che contino le narrazioni individuali. Non ci aveva forse detto Nietzsche che «no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» (3)? Ecco, allora nulla esiste veramente: tutto è apparente, ogni punto di vista è possibile e ogni proposizione è, insieme, apprezzabile e criticabile.
In questo bailamme liberistico, stiamo tutti prendendo un tè coi biscottini ed esprimendo, ciarlieri, la nostra opinione. Se nella comunicazione manca la ricerca di una verità analitica, ossia l’evidenza oggettiva che discende da un confronto ragionato tra gli interlocutori, cosa succede? Ci perdiamo in miriadi di verità ermeneutiche, risultato di schemi di ragionamento personali e più o meno arbitrari. Tutti veri, peraltro, perché mai accertati (4).
Il passaggio dalla fiera dei pareri al cazzeggio generalizzato è più breve di quel che si pensa.
Come recuperare il senso delle nostre parole?
Come uscire, dunque, da questa conversazione potenzialmente infinita e ridondante, ricca di tutto e del contrario di tutto, cacofonica e inservibile?
Un’idea mi viene dall’osservazione che, quando le persone si ammalano e pensano di avere una breve aspettativa di vita, iniziano a dare un significato al loro agire. Bene: anche nella nostra comunicazione, potremmo tornare ad assegnare una lunghezza al tempo, smettendo di illuderci che si estenda solo in larghezza. In questo modo, eviteremmo di creare discariche di parole, gettate via anziché pronunciate, per spenderle come fossero oro, utilizzando con cura e attenzione quelle sensate e dotate di scopo.
Non vorrei conversazioni secchione, eh. Mi basterebbe che il fashionable nonsense, come è stato definito dai fisici Alan Sokal e Jean Bricmont in un celebre pamphlet pubblicato alla fine degli anni Novanta (5), non si confermasse il paradigma espressivo che ci circonda, ma rientrasse in un gioco da parolibere futuriste.
Non vorrei chi parla senza dire nulla. Vorrei chi parla per creare uno spazio di relazione con gli altri, consapevole che il tempo non va ingannato, ma onorato.
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
(1) Sant’Agostino, Confessioni, tr. it. di C. Vitali, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2006
(2) Maurizio Ferraris, Emergenza, Einaudi, Torino, 2016
(3) Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano, 1975
(4) Maurizio Ferraris, Postverità e altri emigmi, Il Mulino, Bologna, 2017
(5) Alan Sokal, Jean Bricmont, Fashionable Nonsense: Postmodern Intellectuals’Abuse of Science, Picador Usa, New York, 1999
Crediti fotografici
Foto di Nile da Pixabay