Isabella De Maddalena e lo sguardo bivalve

Sulla carta, Isabella De Maddalena è fotografa. Nella realtà, genera perle. Onora i corpi che la società in qualche modo sente estranei e li ricopre con carezze concentriche di bellezza e valore.
L’ho scelta come dodicesima fiùtola di Amletica perché riesce a impollinare la sua comunicazione con tuffi d’amore, per fortuna mai risolti e sempre lenti. Salva il salvabile della vita e dell’umano. E quando tutto rischia di andare a rotoli, trasformarsi in speranza vana o incappare in prese in giro, pericoli o travestimenti, le siamo grati per il suo progetto di rivolta e di gioia totale.
E in questa nostra era sbocciante, eppure così faticosa, a tratti stolta e spesso violenta, abbiamo bisogno di uno sguardo bivalve, che produca perle. Non tanto per sottolineare la nostra rarità, quanto per rintracciare la cura verso il senso e lo scopo dell’esistere.
Chi è Isabella De Maddalena
Nata nel 1978 a Santa Margherita Ligure (Genova), nel 2002 Isabella si è diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra il 2001 e il 2006 ha lavorato in studi fotografici a Milano e Londra. Dopo uno stage all’agenzia Contrasto, nel 2006 ha iniziato a dedicarsi a progetti personali, che da subito hanno avuto come centro le donne: i temi dei diritti, la maternità in diversi paesi, il mondo del lavoro.
Nel 2010 si è specializzata con un Master in Visual Storytelling alla Danish School of Media and Journalism ad Arhus in Danimarca. E nel 2015 è stata tra le vincitrici del concorso The Other Hundred con un progetto sull’imprenditoria femminile in Polonia.
La sua carriera (finora)
Isabella ha esposto in diverse collettive, tra cui: Scolpite per l’Associazione Donne Fotografe a Palazzo Reale a Milano (2021), Photoaction per Torino alla GAM (2021), #PSyougotthis a Photoville a New York (2019), Family Portrait – DOCfield a Barcellona (2018), The Other Hundred – Format a Derby nel Regno Unito (2015), Contro-forma all’Art Space Purl, a Daegu in Corea (2012). Tra le sue personali: Encuentros extra-ordinarios con escritores mexicanos all’Istituto di Cultura Italiana di Città del Messico (2019) e Living in Community al Milano Photofestival (2011).
Parallelamente alla narrazione fotografica di storie, da diversi anni Isabella porta avanti un archivio di ritratti di personaggi del mondo della cultura, arte, letteratura, cinema. Le sue immagini sono pubblicate su testate di assoluta serietà e prestigio: The New York Times, Marie Claire International, Le Monde, Io Donna, The Guardian, The Observer, The Sunday Times, L’Espresso, WWD USA, El Pais, The New Yorker.
Il suo lavoro è distribuito attualmente dalle agenzie LUZ, Opale e Institute. Dal 2018 Isabella fa parte del network internazionale Women Photograph e nel 2020 entra in Constructive Network, il primo network italiano di professionisti dell’informazione e della comunicazione che scelgono il giornalismo costruttivo.
Quando e perché, Isabella, hai deciso che saresti diventata fotografa?
Ho iniziato a fotografare all’età di 20 anni, quando frequentavo il corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Da subito la macchina fotografica è entrata con naturalezza nel mio modo di vedere. La fotografia mi dava la possibilità di unire molti elementi della pittura – la composizione, la scelta dell’inquadratura, i colori e l’espressività – diventando allo stesso tempo uno strumento attivo di conoscenza del mondo, che mi portava a scoprire e raccontare storie, mondi a volte vicini, a volte lontani da me. Fotografare l’altro è diventato il tramite per uscire dal mio mondo, per documentare, provare empatia, emozionarmi, abbattere i pregiudizi. Se vissuta in un certo modo, credo che la fotografia possa essere una forma di espansione della coscienza. La pittura resta un grande amore e la base visiva del mio modo di fotografare.
Se l’etica della comunicazione è riflettere sul proprio agire comunicativo, quali sono gli obiettivi della tua attività?
Per quanto gli obiettivi evolvano nel tempo, ci sono delle basi che restano nel mio lavoro. Uno degli intenti che mi hanno mosso è stato il raccontare il mondo delle donne, i nostri talenti, i diritti raggiunti e da raggiungere, indagare i diversi aspetti della femminilità. Un altro obiettivo è rendere visibile l’invisibile. Nel 2019 ho realizzato un progetto sulle donne in carcere, portando i volti di 18 donne fuori dall’invisibilità della detenzione, cercando di abbattere il pregiudizio implicito nel concetto di dentro e fuori. Ho chiesto loro di scegliere un oggetto che all’interno del carcere le avesse aiutate a ricostruirsi. Un altro progetto degli ultimi anni racconta la professione delle restauratrici d’arte, importantissima in Italia ma non sempre sufficientemente valorizzata. Quello che cerco di fare è scoprire e riportare l’umanità in tutto ciò che ci circonda. Un’umanità che esiste anche dove non penseremmo, perché tutto dipende dal modo in cui guardiamo le cose. Nei ritratti cerco sempre di restituire la dignità che vedo nelle persone che fotografo.
Fai parte del Constructive Network: come si può progettare e realizzare una narrazione costruttiva attraverso le immagini?
Credo che, per chi fa questo mestiere, interrogarsi su come si fotografa e perché sia fondamentale, così come sull’impatto che determinate immagini possano avere su un pubblico. Una narrazione visiva è costruttiva quando, andando oltre le preesistenti rappresentazioni, riesce a superare uno stereotipo, quando mette in luce la capacità di resilienza delle persone coinvolte in un problema. Vediamo, ad esempio, come spesso le immagini proposte dai media, quando si parla di violenza sulle donne, non riescano ad uscire da certi cliché, la violenza deve essere qualcosa di visibile, stereotipata. Ma la realtà è più complessa: la violenza può essere invisibile, le donne vittime di violenza sono spesso anche delle guerriere, e una narrazione costruttiva dovrebbe cercare di raccontare la complessità del reale, la forza nella vulnerabilità, impegnarsi ad offrire dei modelli di rappresentazione virtuosi perché l’immagine può diventare modello per il reale (1), può sollevare un punto di vista diverso sulle cose.
Quali sono, oltre te, i fotografi che oggi fanno visual journalism con focus sulla soluzione?
Una fotografa che si occupa di narrazione costruttiva è Tara Pixley, che vive a Los Angeles e ha collaborato con la sezione Fixes del New York Times, che propone e analizza soluzioni a problemi sociali. Nel 2019 il suo progetto Casa de Luz è stato selezionato dalla Solution Visual Journalism Initiative del World Press Photo, un programma che supporta storie fotografiche con focus sulle soluzioni. Casa de Luz è una casa-rifugio a Tijuana, in Messico, che ospita i rifugiati centroamericani più vulnerabili: le madri single e i loro figli, le donne trans e le persone LGBTQ+ in fuga dall’omofobia, dall’instabilità economica e la violenza del loro paese d’origine, verso gli Stati Uniti. Ilvy Njiokiktjien, che vive nei Paesi Bassi, con The Old Normal ha, invece, esplorato il co-housing come soluzione di vita sostenibile. Andrea Morales, fotografa peruviana, ha invece raccontato sul Seattle Times l’approccio del Tennessee all’affido. Il fotografo sudafricano Brent Stirton, con Akashinga-Le coraggiose, finalista al World Press Photo 2019, racconta un’unità anti-bracconaggio nello Zimbabwe, formata da sole donne provenienti da situazioni svantaggiate.
Perché la cultura visuale ha un impatto così potente nella comunicazione contemporanea?
L’immagine comunica un messaggio con grande immediatezza toccando le nostre corde emotive, è un linguaggio universale, e per questo penso sia così potente nel mondo iperconnesso in cui viviamo. La rete ha abbattuto i confini geografici; e il tempo per veicolare messaggi scorre sempre più veloce. Creare immagini è alla portata di un numero sempre più alto di persone, pensiamo ad instagram, che offre un flusso di immagini continuo. Ma proprio per questa grande diffusione credo sia importante fornire, soprattutto ai più giovani, degli strumenti di lettura. In questi due anni di pandemia, poi, il valore di documento dell’immagine è stato fortissimo. È attraverso le immagini che siamo stati testimoni di quello che accadeva in prima linea negli ospedali. Parallelamente, si è anche sviluppata una forma più intima di racconto. Penso a The Journal, un progetto a cui ho preso parte nell’aprile 2020, che ha coinvolto centinaia di fotografe in tutto il mondo. Insieme abbiamo creato un diario visivo del nostro quotidiano durante il lockdown. La fotografia è diventata così condivisione, le immagini ci hanno unite, dicevano qualcosa dell’altro che poteva riguardare noi, sia che ci trovassimo a Milano, Berlino, New York o Istanbul. L’immagine non conosce confini, è anche un mezzo per sognare, allargare gli orizzonti.
Per conoscerla meglio…
Vi lascio un po’ di link su Isabella De Maddalena, d’accordo? Anzitutto, il suo sito e la sezione a lei dedicata su Institute. Poi, un articolo su The New York Times per avvicinarsi alla sua ricerca fotografica. Infine, una videointervista per NOC Sensei e una intervista per il blog di fotografia di Efrem Raimondi. Credo che, alla fine, anche voi penserete che Isabella ha l’insolito e potente sguardo bivalve di un’ostrica.
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
- John Berger, Capire una fotografia, Edizioni Contrasto, Milano, 2014.
Crediti fotografici
Foto © Isabella De Maddalena.