Informazione: ai lettori svantaggiati chi pensa?
I giornalisti sono un conglomerato di gente che se la tira. Immagino che ci avrete già fatto caso, vero? Hanno sempre l’atteggiamento spocchioso di chi si rivolge alla propria cricca.
Ricordo ancora, come se fosse ora, il mio primo articolo giornalistico. Era il lontano pensavate-che-ve-lo-dicessi? Avevo recensito la Biennale internazionale d’arte di Venezia. La mia caposervizio al giornale lo scorse velocemente, poi strabuzzò gli occhi, tipo protagonista de L’esorcista. Colpita da questo suo evidente stato di possessione diabolica, le chiesi, anzitutto, se stesse bene e, poi, se il mio «pezzo» potesse funzionare.
«Nooooo!», tuonò lei con la bava alla bocca. Deglutii, per riprendermi dallo spaghetto. «Sembra scritto da Giulio Carlo Argan!!». Insomma: da uno storico e critico d’arte sui cui manuali si sono incagliate generazioni e generazioni di liceali, senza capirci un’acca. Un intellettuale sopraffino, per carità, ma con un linguaggio che definire aulico ed esoterico è poco.
«Devi scrivere anche per la vecchina che va al mercato, capisci?», urlò. «Ma, scusa, non leggerà mai un pezzo sull’arte contemporanea…», provai timidamente a difendermi, immaginando mia nonna che tentava di decodificare una performance di Marina Abramović o un dipinto di Gerhard Richter. «Non importa! – sentenziò – Tu devi parlare a tutti».
L’importanza di parlare a tutti
Volete sapere come andò a finire? Mi rannicchiai sulla seggiola, diventando piccola piccola (nel mio caso non è difficile: ci metto due secondi!) e rilessi con attenzione il testo. In effetti, la mia capa aveva ragione: solo un esperto poteva comprendere espressioni così criptiche, apprezzare simili contorsionismi verbali e non imbestialirsi di fronte a tali sfoggi di cultura.
Fu allora che promisi a me stessa che avrei scritto per tutti. E così continuo a fare. Anche quando l’argomento è specialistico, provo sempre a tradurlo in parole semplici, chiare, lampanti. Mi sforzo di spiegare ogni acronimo, ogni termine tecnico, ogni vocabolo astruso, ogni virgolettato enigmatico, ogni nesso occulto. Non do nulla per scontato e sposo a pieno titolo una comunicazione a basso contesto, quella in cui non devi tralasciare nulla. Atteggiamento che, peraltro, mi torna utile anche come docente.
Ho smesso da tempo di rivolgermi al divino popolo degli eletti, per mettere ogni interlocutore nelle condizioni di comprendermi. È uno dei motivi che mi hanno spinto ad aderire al Constructive Network: una rete di professionisti dell’informazione che crede nella missione di aiutare i lettori – non solo le persone colte e competenti in senso comunicativo, ma anche la «ggènte» – a capire la realtà, facendoli sentire in grado di agire per migliorarla.
Perché tendiamo a rivolgerci agli addetti ai lavori?
Possono essere tanti i motivi che inducono noi giornalisti ad acquisire un linguaggio per pochi. Forse per il bisogno di affermare il privilegio di raccontare il mondo agli altri? Il potere, come sappiamo, si nutre di oscurità. E l’informazione, se è instrumentum regni, cioè uno strumento utilizzato per comandare, non chiarisce mai, ma complica. Non illustra, impone. Non crea una relazione con il pubblico, la snobba.
Forse per il desiderio di distinguersi dalla massa? Spesso, chi informa brandisce la conoscenza e l’erudizione come una medaglia per elevarsi al di sopra gli altri. Siamo sicuri che il compito della nostra professione sia quello di sentirci prime donne e di farci belli? E non, piuttosto, quello di agevolare le persone a comprendere la realtà, a sviluppare uno sguardo critico sulle cose e a prendere decisioni individuali e di rilevanza pubblica in modo più consapevole?
Forse per incapacità, cioè per mancanza di competenze linguistiche adeguate a garantire una comunicazione efficiente ed efficace? Qui la faccenda si fa piuttosto grave, converrete con me, perché un giornalista dovrebbe padroneggiare gli strumenti comunicativi al punto da riuscire a piegarli alle diverse intenzioni comunicative, alle caratteristiche del contesto e alle esigenze degli interlocutori.
Una questione etica, non solo professionale
Quel mio primo articolo sarebbe stato forse corretto in una comunicazione endoriferita, ossia rivolta a un ambito specialistico: come saggio sul tema, all’interno di una collettanea, o come relazione a un convegno di professoroni. Ma era sbagliato per essere pubblicato sulla pagina di un quotidiano: nel giornalismo, è necessario che un testo sia comprensibile.
Non solo chi fa informazione ha l’obbligo di garantire una comunicazione che non lasci nessuno indietro, ma è proprio agli interlocutori con una bassa scolarizzazione o non tanto acculturati che deve far riferimento. Sono gli ultimi in senso comunicativo che deve avere a cuore. E la questione non è solo legata agli obiettivi democratici della professione, ma anche a quelli dell’etica della comunicazione.
È interessante il racconto che la sociolinguista Vera Gheno fa, nel suo ultimo libro (1), su quanto le disse il grande linguista Tullio De Mauro, dopo aver letto una delle sue prime schede di consulenza linguistica per l’Accademia della Crusca. Scosse la testa, sorrise e osservò che era stata scritta per lui, non per coloro che avrebbero dovuto leggerla. E la invitò a pensare sempre al più svantaggiato dei possibili interlocutori.
Andiamo verso le periferie
Per usare una metafora che è cara a Papa Francesco, i giornalisti devono andare verso le periferie per incontrare quei margini sociali, economici ed esistenziali che hanno bisogno di più attenzione comunicativa. Devono portarsi da coloro che, più di altri, hanno bisogno di una scrittura limpida, esaustiva e accessibile.
Essere lineari, naturalmente, non significa banalizzare. Tutt’altro. Significa approfondire così tanto un argomento da riuscire a smontarlo, analizzarlo nei minimi dettagli per poi rimontarlo in maniera che tutti possano capirlo (2). La chiarezza è una virtù etica per noi comunicatori. È dare generosamente qualcosa al pubblico, non far vedere quanto si è bravi.
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
- Vera Gheno, Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole, Einaudi, Torino, 2021
- Mariagrazia Villa, Il giornalista digitale è uno stinco di santo. 27 virtù da conoscere per sviluppare un comportamento etico, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2018
Crediti fotografici