Il rispetto della privacy ci rende stranieri morali?

Il rispetto della privacy ci rende stranieri morali?

Il rispetto della privacy è una conquista importante. Chi può metterlo in dubbio? Ma, a volte, ho l’impressione che ci legittimi a prendere le distanze dagli altri.

Il diritto alla riservatezza delle informazioni personali e della propria vita privata è un bene da tutelare. Le normative per la privacy che si sono susseguite negli anni, sino al Regolamento Europeo per la protezione dei dati personali (GDPR) entrato in vigore il 25 maggio 2016, sono state pensate proprio per questo: salvaguardare ciò che il singolo individuo è e come decide di trascorrere la propria esistenza, impedendo che altri si intromettano nella sua sfera privata senza esserne autorizzati.

L’istituto della privacy nasce negli Stati Uniti nel 1890, come diritto dell’individuo “a essere lasciato solo” (to be let alone). Interessante, vero? Poter liberamente esprimere la propria personalità e avere l’autodeterminazione e la sovranità su sé stessi sono stati correlati a una condizione di solitudine.

Dall’empatia all’apatia

Il culto della vita privata, che le fonti legislative hanno sancito, credo abbia acuito, sebbene non in modo diretto, il cosiddetto effetto spettatore (bystander effect). I testimoni di una situazione critica che li chiama in causa, anche se non li coinvolge personalmente, tendono a chiudersi in uno stato di apatia che riduce o azzera la loro capacità empatica. In particolare, se sono presenti altri testimoni e la responsabilità si distribuisce su più astanti.

Sono tanti, purtroppo, i casi di cronaca in cui chi poteva intervenire, per esempio in un alterco o un’aggressione, ha preferito tirare dritto, pensando che la gatta da pelare non fosse sua. Se due persone stanno litigando, cosa c’entro io? Perché dovrei intromettermi? Affari loro, se vengono alle mani o qualcuno si fa male.

Perché ci estromettiamo e disinteressiamo e rimaniamo estranei alle vite altrui? Tra le tante motivazioni psicologiche, sociali e personali che influiscono sul processo decisionale dei bystander, penso che anche la “religiosa” tutela della privacy dell’altro, in cui siamo culturalmente immersi, giochi una sua parte.

Piccoli stranieri morali crescono

La non interferenza nelle vite altrui ci rende “stranieri morali”, per usare l’espressione del bioeticista texano Hugo Tristram Engelhardt Jr. (1). Chi sono? Individui che non hanno in comune premesse morali e norme che consentano loro di risolvere le controversie con gli altri mediante l’argomentazione razionale.

In parole povere: ciascuno vive in un politeismo valoriale. È in disaccordo con i suoi simili sul contenuto da attribuire a principi e norme ed è posto di fronte a una molteplicità di discorsi morali e stili di vita potenzialmente in contrasto gli uni con gli altri.

Come superare, allora, il fallimento del progetto illuministico di fondare la morale su base razionale? Come consentire una convivenza pacifica tra le persone? Come non soccombere al caos di una polifonia di visioni morali? Secondo Engelhardt, la riposta sta nel “permesso” che ciascun individuo concede agli altri di compiere o non compiere certe azioni.

È una morale procedurale: nessuno entra nel merito del contenuto da attribuire a valori quali bene, giustizia, altruismo. Le persone cercano solo un accordo formale con gli altri, che permetta loro di dirimere i problemi pratici.

Tuteliamo la sfera pubblica

Questo scenario, caratterizzato da stranieri morali che non entrano in contrasto con i valori altrui per il timore di invaderne lo spazio privato, ci conduce spesso ad abbandonare il prossimo alle sue difficoltà. Lo lasciamo, appunto, da solo.

Anche lo Stato liberale secolarizzato, per assicurare la più ampia libertà di movimento ai cittadini, ha scelto di non intromettersi, non specificando in dettaglio che cosa sia il bene e che cosa sia il male. È il paradosso evidenziato dal filosofo e giurista Ernst-Wolfgang Böckenförde (2) alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Per non imporre modi di pensare né stili di vita, lo Stato liberale può solo tracciare un’etica minima per la convivenza, confidando che tutti vi convergano, senza poterlo però garantire. D’altro canto, se prescrivesse di più a livello legislativo, diventerebbe totalitario.

La nostra è una società aperta. E, spesso, come notava Karl Popper (3), viene confusa con una società depersonalizzata, in cui gli uomini non si incontrano mai faccia a faccia, comunicano attraverso lo schermo di uno smartphone o un pc, camminano con gli auricolari nelle orecchie, viaggiano in automobili chiuse, si fecondano in provetta.

Eppure, la morale ha bisogno di salvaguardare la sfera pubblica delle nostre vite, non solo quella privata. Ha fame di persone che agiscano, non di spettatori. Di amici, non di stranieri. Di immischiati, non di assenti.

Mariagrazia Villa


Approfondimenti

(1) Hugo Tristram Engelhardt Jr., Manuale di Bioetica (1996), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1999.

(2) Ernst-Wolfgang Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione (1967), tr. it. Morcellana, Brescia, 2006.

(3) Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. II (1974), tr. it. Armando, Roma, 2004.

Crediti fotografici

Foto di Chris Sansbury da Pixabay