Il piacere di una vita molto personale

Il piacere di una vita molto personale

Vivere senza comunicare cosa stiamo facendo ha ancora un senso? Coltivare interessi, esperienze e relazioni in modo privato sembra ormai diventato uno sport estremo.

Non sono una fanatica della rete. Tant’è che i miei account social li ho aperti, quando gli altri della mia generazione li chiudevano. L’ho fatto, più che altro, perché i miei studenti mi chiedevano di «restare in contatto». Un contatto poco tattile, a ben vedere, ma pur sempre un contatto.

Anche il mio sito e questo blog, Amletica, sono stati battezzati qualche mese fa, giusto per venire incontro a chi mi domandava, quasi fosse una questione di vita o di morte (forse lo è?): «ma ti trovo su internet?». Si vede che i bit sono più necessari del sistema cardiovascolare per il nostro sostentamento in società.

C’è stato un tempo in cui

Robert Musil, nel suo capolavoro L’uomo senza qualità (se non lo avete mai letto, vi manca qualcosa e, guaio di tutti i guai, magari non ne avete contezza), scriveva:

Ci sono ancora persone che vivono molto personalmente; dicono «ieri siamo stati dal tale e dal tal altro», oppure «oggi facciamo questo e quest’altro» e ne sono contenti, senza bisogno di altro significato e contenuto. Amano tutto quanto toccano con le dita e sono tanto esclusivamente persone private quanto è possibile esserlo; appena ha a che fare con loro, il mondo diventa un mondo privato e brillante come un arcobaleno. Forse sono molto felici; ma quella specie di gente appare già assurda, di solito, a tutti gli altri, sebbene non si capisca ancora bene il perché (1).

Erano gli anni Venti del Novecento e già Robert intuiva che chi era in grado di «vivere molto personalmente» era visto con sospetto, e un po’ di sotterranea irritazione, da parte di tutti gli altri. Perché veniva considerato strambo, quasi inspiegabile, per via del piacere che provava nel fare le cose «senza bisogno di altro significato e contenuto».

E oggi?

La nostra situazione, negli anni Venti di questo secolo, sembra aver convalidato l’intuizione di Musil (che, notoriamente, aveva un’intelligenza mostruosa). Se una persona non è iscritta a nessun social network o non posta mai nulla, ci incuriosisce parecchio, neanche fosse un incrocio tra un’echidna e un capibara. All’idea che la sua vita privata non venga confessata pubblicamente, attraverso una telecronaca minuto per minuto, ci impensieriamo… perché non vuota il sacco? Cos’ha da nasconderci? Vuole sottrarsi al nostro sguardo?

La domanda è: riusciamo ancora a fare una passeggiata, leggere un libro, ascoltare musica, assaggiare un nuovo piatto, andare a trovare qualcuno o guardare le nuvole per il semplice gusto di farlo? Ossia: senza la stressante necessità di raccontarlo ai nostri amici, follower e contatti digitali? O il nostro agire privato si riduce sempre a un’occasione per informarli?

Lo psicanalista Christopher Bollas afferma che, in questo periodo storico, da lui definito con pochi sconti «l’età dello smarrimento», la maggior parte delle persone si sente in dovere di riferire tutto quello che vede e sente, imitando la funzione di un dispositivo di trasmissione (2).

Dal massimalismo al minimalismo

Se siamo, dunque, un piatto «Sé trasmissivo», con l’infelice risultato di faticare a intravedere un significato profondo per le nostre azioni e di avvertire un persistente senso di malinconia per la perdita del nostro riserbo, come possiamo intervenire?

Di soluzioni a questa perenne estroflessione della nostra vita, a questo trasformarla in materia prima dei nostri atti comunicativi digitali, ce ne sono tante. E sono tutte accomunate dal passaggio, da un massimalismo sfiancante (quello in cui corriamo ora, freneticamente dipendenti dall’urgenza di informare gli altri su di noi e di sbafare le informazioni altrui), a un assennato minimalismo.

La filosofia del minimalismo si può riassumere in due modi. Anzitutto, nel consiglio che, da bambina, mi dava mia nonna Bice: «di cose personali, dinne sempre poche». Aggiungeva anche: «e di patatine fritte, mangiane sempre poche», ma questo dubito che, ai fini del nostro ragionamento, vi interessi più di tanto. Poi, nella messa a fuoco che ridurre non è solo una questione di poco versus molto, ma anche di buono versus cattivo. Limitare è sempre favorire il bene o no? Se moderate il fumo, per esempio, è perché ritenete che sia un bene non asfaltare i vostri polmoni.

Continenti e consapevoli

Oggi, l’uso di internet e dei dispositivi mobili ha senz’altro modificato le nostre esistenze (perché noi abbiamo acconsentito, naturalmente… non avevamo una calibro 9 puntata alla tempia). E le ha spinte a raccontarsi più o meno prolissamente: non a caso, il millennio si è aperto con il magico ritrovato, tanto caro ai markettari, dello storytelling… Perché non decidere, allora, di condividere sui social soltanto quanto è degno di riflessione, analisi e interesse sia per noi che per gli altri?

Non credo nell’astensione digitale di sapore neoluddista, tipo quella suggerita dal docufilm The Social Dilemma (qui potete guardare il trailer). E nemmeno nell’allontanamento periodico e ristoratore dai social network (3), tipo pausa di riflessione tra morosi con acrobatici tira-e-molla e bigonci di minestre riscaldate.

Credo nella continenza consapevole. Perché presuppone una scelta, in termini di selezione e priorità, dei contenuti da postare. E perché sprona a difendere quella vita «molto personale» che tale, a mio piccolo parere, dovrebbe rimanere.

Mariagrazia Villa


Approfondimenti

  1. Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 2014, volume I, pp. 166-167.
  2. Christopher Bollas, L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018.
  3. Cal Newport, Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni, Roi Edizioni, Milano, 2019.

Crediti fotografici

Foto di Steve Bidmead da Pixabay.