Toccare le emozioni: un esercizio di concretezza
Sto bene, grazie. Sto male, accidenti. Sto così così, pazienza. Ma che aspetto hanno il nostro stare bene, male o così così? E se le emozioni prendessero finalmente corpo?
Avete presente la stampa 3D? Ottimo. Immaginate cosa accadrebbe se, ciascuno di noi, nel momento in cui comunica con un’altra persona, potesse materializzare la propria emozione, stampando un oggetto tridimensionale che la rappresenta. Naturalmente, dovrebbe essere un oggetto che l’altro conosce. Così come, quando parliamo, dovremmo sforzarci di usare termini il cui significato sia chiaro al nostro interlocutore.
Adesso, per esempio, provo un’emozione di leggerezza gioiosa perché mi preparo ad andare in vacanza. Se il mio stato emotivo fosse collegato a un sistema di prototipazione rapida, realizzerei, strato dopo strato, una nuvola lilla di zucchero filato, come quelle che si comperano nelle fiere di paese. E alla domanda: «come stai?», mostrerei la mia golosa e soffice e quasi impalpabile risposta.
Eccoci al nostro quinto esercizio di etica della comunicazione (qui trovate il quarto). È molto semplice perché non avremo bisogno di particolari tecnologie, ma solo della buona volontà di cercare un oggetto che parli di cosa sentiamo, per poterlo poi mostrare all’altro.
Tu chiamale se vuoi… creta
L’idea di questo esercizio mi è venuta ieri, quando ho ripensato a questo anno e mezzo di relazioni a distanza, mediate dagli schermi, e a come sia imprescindibile, per noi umani, partire dalla comunicazione in presenza, faccia a faccia, per riuscire a costruire legami (1). Perché, mi sono detta, non proviamo a rendere le emozioni più concrete e meno astratte?
Ecco, punto per punto, cosa vi serve per poter svolgere l’esercizio.
- Chi: voi e l’interlocutore (entrambi desiderosi di svelare come vi sentite).
- Cosa: la volontà di mostrare cosa si agita dentro di voi (ma anche cosa saltella, canta, frinisce eccetera).
- Quando: ogni volta in cui desiderate far toccare con mano all’altra persona che cosa provate a livello emotivo.
- Dove: in un posto in cui possiate incontrare qualcuno rigorosamente dal vivo (pur nel rispetto di tutte le norme anti Covid-19, mi raccomando).
- Quanto: il tempo che serve per cercare o realizzare l’oggetto e dieci minuti a testa per illustrarlo.
- Come: ascoltando sé stessi con sincerità e preparando con anticipo l’incontro.
- Perché: per presentarsi all’interlocutore senza nascondere le proprie emozioni o farcirle di vaghezza verbale.
L’effetto è positivo e crea un forte avvicinamento interiore. Vi consente, infatti, di dar corpo a una vostra emozione e di vedere il corpo dell’emozione dell’altro. Non importa se il suo stato d’animo è lontano mille miglia dal vostro: il fatto di vederlo sul piano fisico e non con gli occhi del cuore vi farà sentire più intimi.
In che modo praticare l’esercizio?
È meglio svolgere questo esercizio in due, perché sia davvero di scoperta e di affiatamento reciproco, ma si può anche estendere a un piccolo gruppo di persone che, tra loro, si conoscano.
Prima dell’incontro, cosa farete? Ciascuno di voi metterà a fuoco l’emozione prevalente che vuole condividere con l’altro, cercherà un oggetto che la rappresenti degnamente (o lo fabbricherà lui stesso, se si tratta di Geppetto o di Giovanni Muciaccia) e lo porterà con sé all’incontro. Inutile aggiungere che, se la vostra emozione tridimensionale è la Tour Eiffel, dovete scegliere il souvenir con la porporina o la palla di neve che vi ha portato la zia Maria al ritorno da Parigi: l’originale è poco pratico da infilare nello zaino (oltre che meno divertente).
All’incontro, voilà: sfoderate l’oggetto che avete scelto e raccontate perché materializza proprio l’emozione che provate in quel momento. Non serve avere delle dannate doti da storyteller: serve soltanto essere sinceri. L’altro dovrà fare altrettanto con voi.
Avete dieci minuti, ciascuno, per esporre con una certa precisione perché proprio quell’oggetto parla di come vi sentite. E, dopo che il tempo a vostra disposizione è scaduto, potete toccare l’oggetto dell’altro e porre una domanda. Una sola, eh. Rispetto alla quale, chiedere è lecito, come sapete, e rispondere è cortesia…
C’è qualcosa da imparare?
L’etica è un’incessante riflessione sul nostro agire nella prospettiva di un’intesa con l’altro (2) e possiede un’ineliminabile portata comunicativa. Pertanto, contattare le nostre emozioni, chiamandole fuori dalla propria interiorità per forgiarle come creta e donarle, in forma fisica, all’interlocutore, è un atto morale e altamente comunicativo.
A volte, propongo questo esercizio ai miei studenti universitari, alla fine del corso di Etica: che cosa provate, dopo aver frequentato le lezioni? Per mia fortuna, non si presentano mai con dei mattoni (pieni o forati farebbe poca differenza) o con scatole piene (di che cosa, anche in questo caso, farebbe poca differenza). Spesso, arrivano in aula con lenti di ingrandimento, binocoli, occhiali. Oppure con mappe e bussole. Avvertono curiosità e bisogno di esplorare un terreno nuovo.
Forza, allora! Per stare in relazione, le emozioni vanno spinte fuori dall’invisibilità. Anche con un bel calcio nel sedere. E, per farlo, le parole non sempre bastano.
Mariagrazia Villa
Approfondimenti
- Fausto Colombo, Ecologia dei media. Manifesto per una comunicazione gentile, Vita e Pensiero, Milano, 2020.
- Adriano Fabris, Etica della comunicazione, Carocci, Roma, 2014.
Crediti fotografici
Foto di Free-Photos da Pixabay.