Disabilità o disabilitazione?

Disabilità o disabilitazione?

In questi giorni, sto seguendo i Giochi Paralimpici di Tokyo 2021. E sto riflettendo su come le persone con disabilità vengano comunicate dai media.

Nel momento in cui scrivo questo articolo, più di un atleta italiano si è già fatto valere in diverse competizioni. Francesco Bocciardo, per esempio, si è appena aggiudicato l’oro nei 200 e nei 100 stile libero. Su cosa si sono concentrati, però, stampa, tv e siti web d’informazione? Sul fatto che questo ragazzo sia nato con una diplegia distale spastica. E che, fin dall’età di 3 anni, si sia avvicinato al nuoto, come forma di terapia. E anche quando raccontano della sua passione e delle sue indiscusse abilità sportive, ogni considerazione ruota attorno alla tiritera della malattia.

Quando riusciremo a comunicare i successi di un atleta con disabilità come i successi di un atleta, anche noi avremo vinto un oro. Nell’etica della comunicazione.

Il giorno è arrivato

Le persone come Francesco non sono sempre state definite “disabili”. Walter Antonini è un ex giocatore di basket in carrozzina (categoria A1, A2 e B), è stato assessore provinciale allo sport nella sua città ed è l’attuale presidente della sezione parmigiana dell’Anmic (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi Civili). In un libro-intervista di una decina di anni fa, raccontava:

Un tempo, parole come “storpio”, “zoppo”, “menomato”, “mutilato” si usavano spesso, in riferimento ai disabili fisici. Nel 1981, primo anno mondiale dell’handicappato, il termine “handicappato” è stato vissuto come una grande conquista. Oggi, se qualcuno utilizza questa parola, il disabile si sente quasi insultato. Verrà un giorno in cui anche il termine “disabile” sarà percepito come un affronto… (1)

Ecco, il giorno è arrivato. Anziché diventare degli esperti di ferrate sugli specchi, affannandoci a trovare eufemismi in nome di un politically correct perlopiù ipocrita, sarebbe bene iniziare a definire chi ha una disabilità come una persona. Punto. Come ha detto una volta il pentatleta e nuotatore italiano Luca Pancalli, presidente del Cip (Comitato italiano paralimpico): «Tra disabile, diversamente abile, abilmente diverso… chiamatemi Luca!».

Dirsi ed essere detti

Il linguaggio è un aspetto fondamentale nel qualificare il rapporto che abbiamo con gli altri. E scegliere un vocabolo, piuttosto che un altro, pesa come un macigno e può fare la differenza nel costruire un legame o farlo saltare. La nominazione, infatti, determina la creazione di modelli sia cognitivi che etici.

Anche i mezzi di comunicazione – che sono megafono di percezioni della realtà, propagatori di esperienze di vita, narratori di storie – hanno una responsabilità nel promuovere e far assimilare una cultura linguistica esente da (pre)giudizi. Quelli che una parte della società affibbia all’altra.

Il sociologo Renato Stella, in un celebre volume dedicato alle comunicazioni di massa (2), compie una distinzione radicale tra “essere detti” dai media e “dirsi” autonomamente. La cattiva sorte di essere parlati e di non poter parlare accade, va da sé, agli individui e ai gruppi culturalmente, socialmente, economicamente e politicamente marginalizzati, coloro che vengono raccontati da altri, non riuscendo a prendere la parola in prima persona.

Da disabile a disabilitato

Nella sua riflessione etica sui problemi legati all’adozione della parola “disabile”, la studiosa Flavia Monceri sottolinea che:

I termini “disabilità” e “disabile” incorporano un giudizio di valore che discrimina fra esseri umani sulla base della distinzione dicotomica abilità/disabilità, costruita attraverso l’uso del prefisso “dis-” indicante mancanza, diminuzione o sottrazione. (3)

Nel campo dei disability studies, si è avanzata la proposta di sostituire il termine “disabile” con il participio passato del verbo disabilitare: “disabilitato”. Il motivo? Mantenere la consapevolezza che la disabilità non indica una condizione, quanto piuttosto il prodotto di un processo di disabilitazione operato da qualcuno ai danni di qualcun altro, sulla base di un modello di essere umano “abile” o “normodotato” imposto alla società.

Nessuno è “pienamente umano”

I media associano spesso la condizione dell’individuo disabilitato a un’idea di tragedia e di indesiderabilità o a concetti come riabilitazione e cura. Insomma: ritengono che sia uno stato di drammatica minorità, su cui bisogna intervenire in senso medico o assistenziale per accostarsi a una felice etichetta di normalità.

Ma i disabilitati posso essere persone felici e realizzate. Ricordate Stephen Hawking? A 21 anni, gli era stato annunciato che avrebbe avuto sì e no sei mesi di vita. Bene, complimenti ai medici: il guru della cosmologia moderna e uno dei fisici teorici più autorevoli del pianeta è morto all’età di 76 anni, dopo due matrimoni e tre figli.

Ma cambiare prospettiva culturale è possibile. Come? Lasciando che siano le persone disabilitate le uniche titolate a parlare della loro vita, a portare allo scoperto la loro visione del mondo, ad autovalutarsi e autodefinirsi. A sovvertire l’attuale asimmetria, in termini di potere comunicativo, che li riguarda.

Non solo è illegittimo, ma non è nemmeno morale “parlare per loro”, senza ascoltare ciò che loro hanno da dire di sé. Nessuno, nella comunicazione, può arrogarsi il diritto di sentirsi “pienamente umano” e, dunque, di nominare gli altri come carenti, in difetto o privi di.

Mariagrazia Villa


Approfondimenti

  1. Walter Antonini e Mariagrazia Villa, La rivoluzione seduti, Azzali Editore, Parma, 2010, p. 99.
  2. Renato Stella, Media ed etica. Regole e idee per le comunicazioni di massa, Donzelli Editore, Roma, 2008.
  3. Flavia Monceri, “Etica e disabilità”, in Adriano Fabris (a cura di), Etiche applicate. Una guida, Carocci Editore, Roma, 2018, p. 329.

Crediti fotografici

Photo by Dorothea OLDANI on Unsplash.