Farsi statua: un esercizio di incarnazione

Farsi statua: un esercizio di incarnazione

In un celebre racconto di Jean-Paul Sartre, il protagonista è sovrastato da statue che prendono vita e iniziano a svolazzare per la stanza. Qui, saremo noi umani, a diventare statue.

Ne La camera, secondo racconto contenuto nella raccolta Il muro (1), il filosofo esistenzialista francese Sartre narra di un uomo, affetto da una malattia mentale degenerativa, che vive nel timore di alcune statue che ronzano attorno a lui. Rappresentano i suoi pensieri che prendono corpo.

E se fossimo noi stessi a diventare il monumento dei nostri pensieri, rappresentando nello spazio, attraverso il nostro corpo fisico, ciò che pensiamo? E se mantenessimo la posizione assunta per un po’ di tempo, come facevamo ne “Le Belle Statuine”, il gioco della nostra infanzia? E se, nell’immobilità, ascoltassimo le nostre sensazioni?

Il corpo umano come materia prima

Ho sempre amato la Body Art, ossia tutte quelle forme d’arte in cui l’autore utilizza se stesso per esprimere un concetto che gli sta a cuore. È una corrente che rientra nel più ampio novero della Performance Art perché il corpo diventa il luogo stesso dell’azione artistica. Penso, per esempio, alle opere-happening di grandi artisti internazionali, come Marina Abramović, Vito Acconci, Herman Nitsch o Gina Pane, che senz’altro conoscerete.

Mi ha sempre intrigato l’idea di poter utilizzare il proprio corpo, come materia prima, per comunicare qualcosa al mondo. In fondo, anche i tatuaggi e i piercing sono un esempio comune di body art. Così come il make up e l’abbigliamento.

Diventare il proprio monumento

Veniamo, allora, al nostro quattordicesimo esercizio di etica della comunicazione (qui trovate il tredicesimo). Obiettivo: incarnare il nostro modo di comunicare.

Lo spunto mi è venuto dal progetto performativo One Minute Sculptures di Erwin Wurm. L’artista austriaco, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, posiziona le persone, all’interno di musei e gallerie, in pose assurde con oggetti inanimati – come una sedia, una matita o della frutta fresca – e chiede loro di mantenersi immobili per sessanta secondi (2). Lo scopo è che il soggetto esista in quest’insolita dimensione scultorea – come un oggetto d’arte – per un minuto, per esplorare cosa accade in lui a livello interiore.

Cosa vi serve?

È un esercizio simpatico, ma meno sciocco di quanto potreste, almeno inizialmente, pensare. Ecco quanto vi occorre:

  • Chi: voi e qualcuno disposto a fotografarvi.
  • Cosa: favorire una riflessione sul vostro agire comunicativo, provando a concretizzarlo in una specifica posizione del corpo.
  • Quando: in qualsiasi momento della giornata poiché immagino che un minuto per fare questo esercizio possiate sempre trovarlo; certo, meglio non sperimentare quando siete nel bel mezzo di una riunione aziendale e magari siete voi a condurla.
  • Dove: in un luogo in cui possiate avere un po’ di spazio attorno a voi ed essere in compagnia di qualcuno che farà da osservatore/testimone (meglio un amico o un parente, piuttosto che il vostro commercialista o dentista).
  • Quanto: qualche minuto per riflettere su come comunicate; qualche minuto per assumere la posizione plastica che avete scelto; un minuto esatto per diventare il monumento della vostra comunicazione, né un secondo in più né un secondo in meno.
  • Come: con il vostro corpo ed eventuali oggetti che ritenete necessari per andare a comporre la scultura della vostra modalità comunicativa, più uno smartphone per tenere il tempo e farvi fare delle foto, e un taccuino dove trascrivere le sensazioni provate nel minuto in cui siete diventati la statua di come comunicate.
  • Perché: per sentire nella carne e nell’immobilità la vostra comunicazione.

L’effetto è interessante. Sebbene, utilizzando il corpo come strumento comunicativo, possa risultare spiazzante. Non siamo abituati a fare le sculture di noi stessi…

In che modo praticare l’esercizio?

Lo schema è molto semplice. Pensate al modo in cui comunicate in questo momento della vostra vita. Poi, senza star troppo lì a pensarci (lavorate più di pancia, ossia ascoltando il corpo), immaginate quale posizione potreste assumere per incarnare il vostro specifico modo di comunicare.

Ora, chiedetevi se, per realizzare la scultura, avete bisogno anche di alcuni oggetti, non solo del vostro corpo. Per esempio: di una mela o di un foglio di carta o di un berretto di lana. Se sì, procurateveli.

A questo punto, assumete la posizione scelta e chiedete all’osservatore/testimone di far partire il timer che avrete impostato su un minuto e di scattarvi un po’ di foto per documentare la performance. In questi sessanta secondi, mantenetevi perfettamente immobili e ascoltatevi. Cosa provate a essere il monumento del vostro modo di comunicare?

Al termine dell’esercizio, ringraziate l’amico per il piccolo reportage fotografico, guardate le immagini che vi ritraggono e, poi, trascrivete sul taccuino le sensazioni che avete provato, mentre eravate una statua. Cercate di essere sinceri.

C’è qualcosa da imparare?

Diventare una scultura, allo scopo di indagare il proprio modo di comunicare, è un’esperienza di potente apprendimento perché, se manteniamo la mente sgombra da pensieri o giudizi e ascoltiamo le sensazioni che proviamo nel nostro corpo, siamo in grado di aumentare la nostra consapevolezza in modo esponenziale.

Qualche anno fa, ho fatto questo esercizio e ho assunto la classica posizione dell’eroe nella statuaria risorgimentale: schiena inarcata all’indietro e braccia aperte. Irriducibile di fronte alle difficoltà e pronta a qualsiasi sacrificio. Volevo incarnare l’idea della massima apertura verso l’interlocutore.

Peccato che, ben prima dello scadere del minuto, mi sia sentita un po’ scomoda fisicamente: la schiena mi faceva male, il collo pure, e non respiravo bene, come se avessi un peso sul petto. Ho così capito che, per aprirmi verso l’altro, era meglio acquisire una posizione più eretta, protesa in avanti e meno schiacciata verso terra.

Mariagrazia Villa

Approfondimenti

  1. Jean-Paul Sartre, Il muro, tr. it. di E. Giolitti, Einaudi, Torino, 2021 (prima pubblicazione, in lingua francese, nel 1939).
  2. Maja Kolaric e Jrme Sans con Erwin Wurm, Erwin Wurm: One Minute Forever, Hatje Cantz Verlag Gmbh & Co, Berlino, 2022.

Crediti fotografici

Foto di Peggy und Marco Lachmann-Anke da Pixabay.