Perché i vecchi devono sembrare giovani?

Perché i vecchi devono sembrare giovani?

Dimostrare la propria età è cosa buona e giusta? O è moralmente appropriato camuffarla in tutti i modi? Beh, personalmente sono stanca dell’attuale dittatura del giovanilismo.

Ci ho pensato qualche anno fa, all’ultima riunione dei miei ex compagni di classe del liceo. Già non sopporto le reunion dei gruppi musicali, dai Beach Boys ai Police, dai Pink Floyd ai Guns N’ Roses, dai Led Zeppelin agli Who, figurarsi le nostre. Non siamo Ozzy Osbourne dei Black Sabbath, che è stato e rimane un inquietante eccentrico. Noi siamo dei tipetti quieti quieti. Conduciamo vite che fanno dormire, non parliamo mai col diavolo (almeno, non mi risulta) e, soprattutto, non abbiamo venduto più di cento milioni di dischi in tutto il mondo.

Quella sera, dunque, i miei coetanei sfoggiavano outfit che, tra jeans strappati, sneakers, lunghe chiome multicolor, tatuaggi e magliette strizzate, neanche i loro figli. Per non parlare del linguaggio, farcito degli stessi termini gergali e iperbolici che usa un ragazzino delle medie o un cantante trap fuori e dentro dalla galera per spaccio. E i comportamenti? Dal whatsapp selvaggio alla trasgressione alcolica, dall’irritante gossip al selfie con o senza pietanza, dico solo che è un po’ strano che abbiano concluso con successo il ciclo delle elementari.

La pubblicità ha paura di invecchiare

La comunicazione pubblicitaria ha sempre amato i giovani. Ci sta: sono tonici, colorati, belli a vedersi. L’aspirazione perfetta, in particolare per il pubblico che lotta contro le ricrescite, i rotolini, le vene varicose, le zampe di gallina e la presbiopia. Quel pubblico che non potrà mai riavvolgere il nastro del tempo, ma potrà sempre cullarsi sull’amaca della giovinezza.

E quando le aziende devono promuovere prodotti e servizi per anziani? Chi scelgono per le loro pubblicità? Quasi sempre, giovani trasformati in diversamente anziani. Frequenti gli spot di creme “per pelli mature” con modelle di 30 anni. In fondo, è sempre meglio prevenire che curare, giusto? O di assorbenti per l’incontinenza con quarantenni in carriera e di paste adesive per dentiera con anziani così forti da staccare un quarto di bue come ridere.

Talvolta, si opta per anziani non anziani, perché non rientranti nel prototipo del brizzolato e oltre. Si pensi alla 99enne Iris Apfel, ingaggiata qualche tempo fa per lo spot di una vettura. Ancora oggi l’imprenditrice americana è un’icona di stile, estremamente frizzante e non proprio una vecchietta della porta accanto. Lei stessa si è definita la “teenager vivente più vecchia al mondo”. Ma si pensi anche a David Bowie e la moglie Iman, selezionati una decina d’anni fa per la pubblicità di un noto fashion brand. Sembravano forse il nonno e la nonna che vanno a prendere i nipotini a scuola? Macché! Erano due intellettuali metropolitani sempre in tiro e à la page.

In altri casi, invece, i vecchi sono raccontati con un tone of voice squalificante. O è fiabesco e assai improbabile, come se fossero tutti la fatina dei denti, oppure dichiaratamente ridicolizzante, mostrandoceli un po’ rincoglioniti. In entrambi gli stereotipi, chi comunica sembra avere una gran paura della terza età.

Cosa si evince? Che l’ageism, ossia la discriminazione delle persone in base all’età, è un riconosciuto problema etico in campo comunicativo, soprattutto in alcuni ambiti, come quello della moda (1). Si cerca di nascondere l’età anagrafica o di ammetterla, solo a patto di rappresentarla in modo non realistico per la maggior parte delle persone.

Riprendiamoci la nostra età!

Di recente, ho seguito la serie tv Il metodo Kominski e l’ho particolarmente apprezzata, perché nei personaggi interpretati da Michael Douglas e Alan Arkin la vecchiaia è mostrata per intero. Senza sconti e senza panzane.

Perché, allora, non abbracciamo con orgoglio la nostra età? Possiamo iniziare dallo spegnimento della nostra cinquantesima candelina, quando parte il countdown. Che poi è quando, stando allo scrittore e giornalista Jonathan Rauch, la curva a U della nostra esistenza risale (2).

Siccome la vita media si è allungata, sta a noi scegliere se vogliamo interpretare l’invecchiamento come una tragedia o una resurrezione (3). Abbiamo la possibilità di fare un po’ di pulizia e selezionare ciò che per noi è essenziale. Di accettare gli inevitabili problemi dell’età senza fuggire ai Caraibi né in sentieri mistici dell’ultima ora. Di vantare tutti i nostri anni attraverso la forza del carattere (4), risparmiandoci la fatica d’inseguire una primavera ormai fuggita.

Invecchiare non è una sfortuna. Anzi. È una grazia e, come suggeriva T.S. Eliot, dovrebbe diventare un’esplorazione. Per questo, credo che scriverò un piccolo pamphlet su come sembrare molto vecchi. L’anima non vuole continuare a infilarsi le Dr. Martens! Vuole la libertà di scegliere scarpe comode. Perfino ortopediche e a pianta larga, se è il caso.

Mariagrazia Villa


Approfondimenti

  1. Paolo Schianchi e Mariagrazia Villa, Immagini parassita e fashion communication tra etica e creatività, tab edizioni, Roma, 2021.
  2. Jonathan Rauch, The Happiness Curve: Why Life Gets Better After 50, St. Martin’s Press, New York, 2018.
  3. Antonio Polito, Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita, Marsilio, Venezia, 2018.
  4. James Hillman, La forza del carattere, Adelphi, Milano, 2000 (prima edizione in inglese pubblicata nel 1999).

Crediti fotografici

Foto di krakenimages da Unsplash.