Giornalisti si nasce, poi si diventa

Giornalisti si nasce, poi si diventa

È il mestiere più bello del mondo. Anzi: secondo la celebre battuta di Luigi Barzini Jr, fare il giornalista è sempre meglio che lavorare. Ma ci si nasce o ci si diventa?

Nel mio caso, sino ai 5 anni, ho creduto che, da grande, sarei diventata un’affermata pittrice. In fondo, avevo già donato al mondo delle opere niente male. Avevo dipinto, per esempio, tutti i sassi dell’orto e anche la carriola per dare il verderame alle viti. E avevo ottenuto un grosso successo di pubblico (mia nonna) e solo qualche sporadica e ingiustificata critica da persone insensibili all’arte (mio nonno).

Dai 5 ai 7, invece, ho cullato l’idea che il mondo mi avrebbe osannato come romanziera. Immaginavo di architettare trame originalissime e di inventare personaggi più fighi di Zorro e più disadattati di Pippi Calzelunghe. Addirittura, sognavo di tenere a battesimo una nuova lingua letteraria che tutti avrebbero poi usato, tipo l’Arno in cui Manzoni andò a sciacquare i panni, quando sistemò I promessi sposi per adattarsi al fiorentino.

Galeotto fu il mangianastri

Quando ormai mi vedevo andare a Stoccolma a ritirare il Nobel per la letteratura, a 7 anni è arrivato lui: il mangianastri con tante cassette da registrare. L’idea di poter custodire i racconti delle persone, facendo loro delle domande, dalle più innocenti alle più inopportune, mi sembrò semplicemente fantastica! Soprattutto, perché poi avrei potuto riportarli su carta.

Così, come ho ricordato in un mio libro (1), avviai una serie d’interviste a tappeto in tutto il quartiere. Ovviamente, ero una professionista seria, e mi ero data delle regole da rispettare. La prima era di intervistare solo le persone che mi sembravano sufficientemente vecchie: erano le uniche che, a mio parere, potevano raccontare a una bambina delle cose segrete o segretissime. La seconda era di scegliere solo chi mi pareva buono: non tanto perché avessi già una positiva inclinazione verso i comportamenti etici, quanto perché i cattivi mi facevano salire i brividi e non volevo finire nei guai.

Insomma, ancora non lo sapevo, ma stavo scoprendo la mia inclinazione a fare la giornalista. E a dedicarmi a un genere che adoro e che, nella mia professione, avrei utilizzato più e più volte: l’intervista. Un mezzo che ancora oggi apprezzo perché permette di costruire il senso della notizia insieme all’intervistato o intervistata.

I talenti e la vocazione

In parte, dunque, giornalisti si nasce. Quasi sempre, si prova un irresistibile amore per la scrittura. Non credete al dialogo che si sente in The Tender Bar, l’ultimo film diretto da George Clooney (che poteva rimanere a pubblicizzare il caffè: what else?), adattamento cinematografico delle memorie Il bar delle grandi speranze dello scrittore e reporter J.R. Moehringer. Il protagonista vuole diventare romanziere e confessa a un amico: «Temo di non saper scrivere». «Se temi di non saper scrivere, fai il giornalista», gli risponde l’altro, mannaggia a lui.

Ecco: in realtà, la capacità di scrittura è il primo strumento per un giornalista. Anche se poi lavorerà alla radio o alla tv. Lo dico per esperienza: chi non riesce a organizzare con chiarezza, esattezza e fascino un discorso scritto, ben difficilmente riuscirà a farlo a voce.

Il secondo istinto o dono che si avverte è una forte curiosità per la gente e un’intensa partecipazione alla loro vita. Si ha il fiuto per ciò che accade di rilevante agli altri e non si vede l’ora di renderlo noto a tutti. Io, per esempio, non vado mai in nessun luogo senza tendere l’orecchio ai discorsi delle persone. È più forte di me. Perfino quando esco a cena con mio marito, anziché perdermi nel lento esalarsi delle candele o nel suo sguardo azzurrissimo, cerco di captare cosa si dice ai tavoli vicini al nostro. Neanche fossi una spia in abito da sera.

Questi sono talenti. Ma, come hanno osservato di recente Colamedici e Gancitano (2), occorre avere pure una vocazione. Saper fare qualcosa è necessario, certo, ma non sufficiente per individuare il proprio scopo. Bisogna incanalare le attitudini nell’alveo di una chiamata che indirizzi la nostra esistenza e ci faccia sentire nel flusso del cuore. In parte, quindi, giornalisti si diventa.

Le soste della coscienza

Riconoscere la propria vocazione, ossia percorrere la strada lungo la quale i talenti possono incamminarsi, è magnifico. Ma occorre che la nostra consapevolezza faccia frequenti soste. Come se dovesse far pipì, se siete prosaici. Come se dovesse ammirare il paesaggio, se siete più poetici.

Nel caso del giornalismo, le tappe della coscienza sono di due tipi. Quelle più brevi, ma tali da non essere rimandabili, sono legate agli appuntamenti della formazione professionale continua dell’Ordine dei giornalisti e alla deontologia. Anzitutto, la benefica propensione a verificare fonti, dati e notizie prima di passare alla pubblicazione e, poi, tutti gli altri doveri che un professionista dell’informazione è tenuto a rispettare. Per esempio, nei confronti dei minori, dei soggetti deboli e delle persone straniere.

Le tappe che richiedono più tempo e anche spazi di vuoto e introspezione sono, invece, connesse alla propria etica personale, a quello che per noi è il bene nell’agire comunicativo e a come metterlo in pratica ogni giorno. Si tratta di criteri di comportamento che sentiamo appartenerci a livello profondo e a cui desideriamo ispirarci nella nostra quotidianità. E sono proprio loro, a giustificare moralmente le norme deontologiche che scegliamo di non trasgredire. Insomma: le soste lunghe danno un senso a quelle brevi.

Il caso del giornalismo costruttivo e delle soluzioni

Tra tutte le vocazioni che un giornalista può percepire, ce n’è una che mi pare incarnare alla perfezione la gioia di ascoltare la coscienza (chi l’ha detto che è una rompiscatole?! È ora di riabilitarla, poverina). È il richiamo del giornalismo costruttivo e delle soluzioni, di cui ho già scritto anche qui.

Per i giornalisti che praticano questo tipo di informazione, la consapevolezza fa soste speciali. Sia per voltarsi indietro, verso le origini moralmente qualificate del giornalismo, sia per guardare avanti, verso la migliore destinazione del futuro che ci aspetta.

Mariagrazia Villa


Approfondimenti

  1. Mariagrazia Villa, Il giornalista digitale è uno stinco di santo. 27 virtù da conoscere per sviluppare un comportamento etico, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2018.
  2. Andrea Colamedici, Maura Gancitano, Prendila con filosofia. Manuale di fioritura personale, HarperCollins, Milano, 2021.

Crediti fotografici

Foto di cottonbro da Pexels.